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mercoledì 26 marzo 2014

Io, Peppina, e la febbre del sabato sera.




Mezzanotte di fuoco. Preparazione in corso. Solodisco. Sotto la doccia sento già strani brividi di freddo. Sono ipocondriaco io. Riconosco problemucci fisici come i cani trovano tartufi. Sono ipocondriaco io. Mi ammalo solo al pensiero. Nel mentre vago. Docciafreddacaldatiepidacocente. Mentre scende acqua mista a pelle d'oca penso al fatto che vent'anni fa, in questo stesso momento, facevo le stesse identiche cose. L'unica assenza (non in doccia sia chiaro) è rappresentata da due strani individui che rispondono al nome di Sartana e Claudio Fusco. Il primo vende libri ai cavadenti, il secondo fa il vice prefetto. Non è che non vengono più a ballare, anzi. Sono lontani. Nordest italiano. Nebbia, freddo, sabati sera scontati e ripetitivi. Abbiamo questa sindrome da PeterPan. Attenzione! Io ci ho provato a mettere la testa a posto: negativo. Vent'anni fa poi era ancora più suggestivo. Scoprivamo in quel periodo tante cose. Pensando con gioia malinconica alle notti che furono l'acqua mi scivola addosso e si impasta alla febbre. Ma il dovere mi chiama e non posso non andare. Il dovere sarebbe poi quello di salutare un amico, il dj Nello Simioli ospite della movida locale. 

Salgo in macchina, ma prima saluto facceconosciute all'Antipapa (Pub). Con me porto una cassetta di bottiglie di vetro vuote da riempire alla cannella della Pak. Acqua afrodisiaca. Midevicredere. Arrivo in disco, brividi che ho la febbre porcamiserialadra. In altri tempi ero nel lettone già da 24 ore prima. Ma che diavolo, sono diventato grande pure io, saprò badare ad una semplice influenza molto terrena e poco viaria? Saluto il dj, parlo con la fauna locale, e mi accomodo sul divano di pellebianca prodotto con le squame di alcuni indigeni oltre Ausoni. Alle ore 02 i miei occhi di cui non ho mai saputo il colore, non ditemi che castano è un colore, inquadrano l'unica cosa che sanno distinguere anche senza occhiali: la gnagna. In poche parole belle donne. Sorpresa, che neanche nell'uovo di pasqua, all'orizzonte la Dina e la Giuliana. Lo scrivo alla nord per darmi delle arie, come se non bastasse quelle che già mi do. Ça va sans dire. Le pupe in questione sono due bellissime ragazze che hanno una particolarità: ragionano. Scherzo. In pratica sono quelle che io definisco aventi Girl power: belle e capaci di intendere e volere. Tuttounprogramma. Le due compagne di movida sono apparecchiate che neanche a Milano durante la settimana della moda. Quandocivuolecivuole. Mi avvinghio a loro come l'edera fa con il muro. Sono talmente beato che non mi accorgo del fatto che la febbre sta salendo. Ho altre febbri a cui pensare adesso io. 

Ore tre e mezzo. Rompo gli indugi e dichiaro la mia disfatta. Offro un passaggio alle pulzelle ringraziandole della seratina, e in men che non si dica sono sottocoperta. 

Durante la notte entrano nella mia stanza nell'ordine: mio zio Elio che vuole per forza che io inghiotta pizza calda e wafer; mio zio Tonino con in mano la pianta che alcune settimane prima gli avevo chiesto, e vuole sapere dove metterla; il Presidente Napolitano che vuole darmi l'incarico per formare il governo. Nottefonda. Sudorefebbre e viceversa. In un angolo scopro mio padre che suona al sax 'Gut Luchy' accompagnato dai Duft Punk. Di fianco al comodino la sagoma del giornalista Francesco Carnevale che mi mormora in loop nell'orecchio il seguente ritornello: “devi fare bù, devi fare bù, devi fare bù”. Dove bù, cari amici (spero voi lo siate), è sinonimo di 'fare l'amore'. In realtà, tradotto nel suo gergo che è quasi una lingua, il significato è molto più, molto più, molto più come scrivere...rurale, ecco si rurale. La stanza è bella carica. Nel mentre Papa Francesco balla 'Get Lucky' sul mio comò. Ad un certo punto è entrata anche tutta la commissione della mia tesi di Laurea. Non c'è stato nulla da fare. Stesse domande, stesso risultato. Non sono riuscito a migliorarmi neanche di un punto. Freddosudorebagnatofinoalcollo. Salta fuori da un cassetto anche una delle mie prime fidanzatine. Irriconoscibile. Spero che la febbre salga ancora di più per offuscarmi la sua visione definitivamente. Se ne fanno di cose (uso un eufemismo) quando si è ciovani (scritto volutamente così). Oddio, mica solo quando si è ciovani...Ma questa è un'altra storia. L'orecchio sinistro ad un certo punto (il destro è febbricitante anche lui) si ipnotizza su di un particolare: Get Luchy è cantata in realtà dal vivo da David Bowie. Febbrecaldagelidadirompente. 

Ma è in un preciso e topico momento che mi risveglio colto da un insinuante, calibrato, autolesionistico, cervellotico e disperato dubbio: lei dov'è? Caspita è entrata la chiunque dentro questa stanza tonight, ma lei? Lei, amici (sempre che voi lo siate ancora), è Peppina. La panacea di tutti i miei mali; la cura interminabile ed insostituibile; un concentrato di tutti i medicigenerici del mondo e di tutti gli infermieri non assenteisti delle Asl italiane; la madreteresa portatile; un carrarmato della croce rossa; la prova provata che dio esiste e ho le prove, appunto; è il caldo quando ho freddo ed il freddo quando ho caldo; acqua quando ho sete e cibo quando ho fame; la luce al buio e gli occhialidasole con troppa luce; l'ombra nel deserto degli affetti e il sole nel grigio degli affanni. Peppina è mia madre. Pina. All'anagrafe Giuseppina. Ma lei non ama molto farsi chiamare così. Io la chiamo Peppina da un pezzo. Perché ad un certo punto stava diventando imbarazzante chiamarla Mammina. Mio fratello ad esempio la chiama Mamma con punte di Mammina. Ok ma mio fratello ha solo 35 anni. Certo, certo. Ore 8 di domenica mattina, mi alzo dal letto con questo grande proverbiale dubbio. Ho una sagoma fisica che mi riconosco avere solo quando ho l'influenza. Storto come una curva a gomito raggiungo il mio cellulare e digito in un attimo il numero di Casamadre. Neanche due squilli e risponde. Lei è sempre lì che attende. Non la freghi, non te la fai così a Peppina. Quando non risponde, nove su dieci, è successo qualcosa. “Peppina sono io, come mai ti telefono a quest'ora?” Gli faccio questa domanda per capire se è in forma. Fino a non molto tempo fa le bastava vedere l'ora in cui le telefonavi per sapere che c'erano problemi. Ma Peppina oggi ha qualcosa che non va, e la risposta non è quella che mi aspettavo: “Vuoi venire a mangiare qua è vero?” 

Lo sapevo, la gamba le duole a tal punto che non sta ragionando, sragiona. Le dico che stavo male. Da qual momento un silenzio percorre i venti chilometri che distanziano casamadre dalle quattro pareti rosa shocking di casa mia. Il mutismo di Peppina in questi casi è dolore vero. Lei, in quel preciso momento, sente male al posto mio. La febbre in un sol colpo mi si schioda di dosso e trapassa tutte le linee telefoniche del mondo. “Antonio io oggi non mi sento un granché, come facciamo...ti faccio venire a prendere da tuo fratello e ti trasferisci qui?”. Non sarebbe la prima volta. Circa dieci anni fa, una notte d'inverno a Roma, ebbi così tanta febbre che il giorno dopo mio fratello piombò all'improvviso nella capitale per prelevarmi come i marines fanno con i giornalisti caduti prigionieri in Afghanistan. Le dico di no, volevo rimanere in mezzo al rosa. “Allora ti mando tuo fratello con un poco di viveri”. Ma di che viveri parli Peppina, qui è un tracollo che neanche se stessi respirando schiacciato dentro una porta a soffietto. 

La giornata scorre lenta come uno sportello delle poste. Io non ho rivisto più nessuno in casa, se non uno strano tipo che mi ha portato una busta con alimenti e medicinali. Dormo e non dormo nella notte. Di sicuro passo metà del tempo in piedi con un cerchio alla testa che neanche un hula hoop. Cammino in lungo e in largo casa mia, che è pur sempre di pochi metri quadri e rischio così più volte di battere allo specchio dell'ingresso credendo inconsciamente che la stanza continui. 

Sono le otto di lunedì mattina. Manic monday. Suonano al portone. Non senza fatica rispondo. Sembro l'uomo delle caverne. Sembro Neanderthal. Una voce, unica e inconfondibile si insinua nel citofono. Peppina is here. Dopo svariate telefonate del giorno prima, centinaia di raccomandazioni che neanche la nonna di cappuccetto rosso, la mia cura è a soli dieci metri da me. Entra, e in un secondo prende in mano la situazione. Avete presente il personaggio interpretato da Harvey Keitel nel film cult di Tarantino Pulp Fiction? Quello che arrivava e in pochissimo tempo risolve ogni tipo di problema? Ecco, Peppina in quel momento è proprio Winston 'The Wolf' Wolfe. Si tira le maniche della sua felpa più su, e in men che non si dica mi fa bere del latte, mangiare dei biscotti e deglutire una doppietta amarissima di pillole. Mi ritrovo nel letto con uno strato di coperte addosso che neanche i vucumprà d'estate quando vagano per le spiagge con tutte quelle asciugami sulle spalle intenti alla vendita. Nel mentre lei riorganizza tutto il territorio. Passa il lunedì, ma non passa la mia febbre. Il cerchio rimane appeso alla mia testa, e Peppina mi chiede ancora una volta se voglio trasferirmi a Casamadre. Ma io desisto. 

Martedì mattina. La sento scendere dalla macchina. In un nano secondo le ho aperto portone e porta di casa. In un tempo ancora inferiore lei mi ha rimpinzato di cibo e medicine. Martedì pomeriggio sciolgo la prognosi, e dopo aver meditato a lungo, soprattutto durante la notte, mi convinco del trasferimento presso un nosocomio più adeguato (Tra le altre cose ho pensato che se fossero arrivati il ladri non avrei avuto neanche la forza di contrastarli. Caspita io non voglio perdermi l'occasione di sorprenderli sul fatto e fargli una rotta di ossa - che ho una rabbia in corpo che neanche Stallone Rocky-). Insomma trasferirmi in una struttura ospedaliera più idonea: casamadre. La sera poi, tra l'altro, cosa non di poco conto per me, inizia anche Sanremo. Arrivo in riva al Tirreno alle otto di sera. 

Nella macchina di mio fratello sembravano le Hawaii. Ho sudato l'acqua piovuta durante tutti gli ultimi giorni. Martedì, seranotte, in grazia di Dio. Sanremo scivola tra alcune novità e piacevoli conferme. Mercoledì mattina il cerchio però è ancora lì: indistruttibile. Il 38 fisso sulla ruota del mio termometro. La giornata si scioglie come neve al sole, ed è già domani. Dopo una dormita paragonabile a quelle che facciamo in tenerissima età, scopro che il cupo era scomparso. Il grigio con il quale guardavo le giornate piene di sole non c'era più. Ora il giallo, il blu, e quel rossodisera erano tornati. Peppina nel mentre mi aveva preparato tutto il bene del mondo. Spremute di arance che neanche la fabbrica della Fanta. Cibo che neanche alla fiera della porchetta. Cacchio è passata quasi una settimana e credo che adesso sia tempo di andare. Ritornare nel bel mezzo della casa rosa. Ritornare dove tutto era iniziato. Peppina ha provato a suggerirmi di rimanere. In realtà il suo non è un suggerimento, e quasi una preghiera. Si vuole assicurare che il pupo sia tornato quello di sempre. Ok, solo fino a domani, poi però non mi trattenere più. Un altro solo giorno nelle mani di Peppina equivale ad una settimana in un centro benessere Maurice Mességué

Sabato pomeriggio, è tempo di togliere le tende. Mi rimetto la tuta dei giorni peggiori, imbusto alcune cose, mentre la Pepa mi guarda triste come neanche quando sono partito militare nel lontano 1990. Non ho detto dieci, ma più di venti anni fa. Aprendo la porta le dico: “Peppina, tranquilla, domani magari vengo a pranzo qui”. Si chiude così un cerchio iniziato proprio una settimana prima e conclusosi come meglio non si poteva. Peppina, nonostante gli acciacchi di una vita che un poco le ha sorriso e un poco no, ha di nuovo combattuto a mani nude contro l'asiatica, oceanica, araba, sovietica, siberiana e ha stravinto. 

Mentre pranziamo domenica arrivano le prime avvisaglie di febbre da parte di mio fratello. Ecco in arrivo un'altra missione da compiere. Ecco un altro incarico che le arriva dal cuore. Coraggio Peppina, passerà questo inverno e con lui passeranno tutti i virus del mondo. Ritornerà l'estate. L'estate delle tue pizze e delle tue crostate. L'estate dei tuoi bagni alle sette di sera quando la nostra città non la cambi neanche con Miami. L'estate di quando hai baciato i Pooh nei camerini del Seven Up di Formia ed eri bella da togliere il fiato. L'estate che Lino ti fece conoscere il tuo idolo Don Backy. L'estate che mi tenevi sulle gambe ascoltando dal vivo gli Alunni del Sole e la loro indimenticabile Liù. L'estate dei tuoi sacrifici e delle nostre gioie. L'estate delle notti tuttiquantinsieme allo Zen, perché per noi la febbre del sabato sera è iniziata lì e non è ancora finita.